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Il branding: cos’è? e che differenza c’è tra marchio e brand?

Marzo 25, 2024
josephine

Marco Mescolini – Empresa Creativa Partner Affilya

Partiamo da una definizione: cosa si intende per Branding?
Il Branding è quel processo messo in atto dalle aziende per differenziare la propria offerta da altre analoghe utilizzando nomi e simboli distintivi.

Sì, nomi e simboli distintivi.
Perché alla cosiddetta Brand Identity contribuiscono sia gli elementi di Verbal Identity, sia gli elementi di Visual Identity.
La Verbal Identity altro non è che il linguaggio che appartiene a un brand ed è costituita dal nome (l’elemento di comunicazione più duraturo), dal payoff (che sintetizza in pochissime parole la filosofia del brand stesso), dai testi (che devono sia raccontare bene l’unicità del brand sia i suoi prodotti/servizi) e infine dal tono di voce (ovvero il modo in cui si parla, per far emergere il carattere
e la personalità del brand stesso).

La Visual Identity include invece tutto ciò che concerne la comunicazione visiva del brand, ovvero: il logo, i colori aziendali, i font impiegati per la comunicazione, le immagini utilizzate e il tipo di trattamento delle stesse, il design del pack dei prodotti, gli strumenti di comunicazione cartacea, l’aspetto grafico del sito web e così via.

Soffermiamoci ora sul logo.
Logo non si nasce. Logo si diventa. É evidente come un marchio solo dopo un lungo percorso può sapere di valere, e non dipende dalla capacità del grafico che ha disegnato quel logo ma dalla corrispondenza tra la promessa di quel marchio attraverso la forza evocativa di quel segno (e di quel nome) e la capacità di essere coerenti nel suo uso.
Il logo infatti non è un mero segno grafico o un “accessorio decorativo” ma un elemento strategico di comunicazione. In altre parole, è “la faccia” con cui ci si presenta.

Nella progettazione di un logo occorre avere cura di tre aspetti molto importanti:
– la ricerca iconografica, per individuare potenziali elementi evocativi connessi al campo d’azione e alla mission del brand;
– l’attenzione alla sintesi, perché un marchio possa “far presa” ed essere ricordato;
– la forza evocativa del colore, perché i colori colpiscono non solo dal punto di vista estetico ma sono anche importanti veicoli di emozioni e di informazioni, da usare in maniera consapevole.

Spesso si pensa che la “riuscita” di un marchio dipenda dalla sua piacevolezza, ma il “mi piace” è il nemico pubblico del “funziona” per cui dobbiamo sfatare questo mito del “mi piace” come criterio ultimo di giudizio. Non funziona quello che piace, funziona quello che funziona.
Per questo l’efficacia di un marchio si colloca in una dimensione completamente diversa e che deve fare i conti con l’identità, con la storia e con la visione di un’azienda.
Sta proprio qui la differenza tra un marchio e un brand.

Come sottolinea Béatrice Ferrari nel suo volume “Alla ricerca dell’invincibile naming” (Flaco Edizioni) la parola “marchio” deriva dal francese antico marchier, marchiare con un segno visivo. Dunque indica la forma grafica della parola o della sigla e il simbolo che eventualmente l’accompagna.

Il brand invece non si riferisce solo al simbolo identificativo dell’azienda ma anche all’insieme dei valori che evocano emozioni e sensazioni positive. Quindi il brand è qualcosa di intangibile che rappresenta anche la storia di un’azienda, i suoi prodotti e tutti gli elementi che la rendono unica rispetto alla concorrenza.

Quando un simbolo, un segno grafico diventa brand? Quando un mero segno grafico (più o meno piacevole) si trasforma in un segno che rimanda ad altro? È interessante andare alle origini della parola “simbolo”.
Gli antichi greci infatti siglavano i legami di ospitalità e di amicizia con delle piccole tessere che venivano spezzate a metà: ognuno degli amici ne conservava una parte, pronto a ricongiungerla con l’altro amico al successivo incontro. La parola “simbolo” deriva infatti da “symballo” che in greco antico significa “unisco”.

Un simbolo grafico perciò è tanto più riuscito, quanto più è capace di creare “empatia” ossia un legame con chi lo guarda e si riconosce in esso. Oggi si può quantificare in modo molto preciso anche il valore economico di un marchio. Apple ad esempio è il marchio più capitalizzato del mondo con 355,1 miliardi di dollari.

Non si può pensare che il suo valore sia semplicemente associabile al simbolo particolarmente efficace ma ad una serie di fattori che devono concatenarsi. Il marchio non deve far piacere solo al titolare dell’azienda ma raccontare in modo semplice e diretto la missione del brand e incarnarne i valori più profondi. E’ qui che accade il miracolo. Poi senza un management, uno spirito innovativo e le contingenze del mercato nulla accadrebbe ma quanto quella capacità di costruire, rispettare e valorizzare quel brand ha creato valore?

Walt Disney ha sempre avuto una protezione maniacale del proprio marchio. Incontrando il direttore generale di Disney Italia la cosa che ci ha colpito di più è stata il fatto che questo impero da 60 miliardi di dollari di fatturato annuo considerasse il suo bene più prezioso il suo marchio.
Come il primo cent di Zio Paperone! Ma come può essere che a fronte di tante attività la cosa più preziosa fosse proteggere (da sempre) il brand? Questo è l’unico motivo che ha fatto diventare grande la Disney e che continua a essere punto di riferimento in tutto il mondo.
Quindi il gioco è semplice: basta costruire un’immagine che coincida con il sogno imprenditoriale, essere fedeli ad esso nel tempo e con pazienza e costanza muoversi solo nella direzione che non tradisca quella visione.

Così lo stesso nome Disney significa un marchio capace, solo con la sua presenza, di fornire un valore aggiunto straordinario a qualsiasi prodotto a cui viene affiancato.

“La crescita astronomica del potere culturale e patrimoniale delle multinazionali negli ultimi quindici anni può essere sostenibilmente ricondotta a un’idea apparentemente innocua concepita da teorici del management a metà degli anni Ottanta, secondo la quale le grandi aziende devono produrre principalmente marchi e non prodotti. (Naomi Klein). Non penso che Naomi Klein nel suo celeberrimo libro NO LOGO volesse fare i complimenti a nessuno per questo processo ma ci svela il vero valore dei tempi contemporanei.

Un esempio concreto che ci ha visto coinvolti in una transazione da un’azienda cinese a una americana ci svela come oggi il mercato dei beni sia molto diverso da come eravamo abituati a considerarlo.

Quando questa società statunitense ha chiesto a un nostro cliente cinese di poter acquistare il loro marchio – da noi progettato – il cliente cinese è saltato sulla sedia perché non pensava neppure si potesse vendere un marchio. In un primo momento hanno pensato di dover vendere l’azienda ma quando hanno capito che gli americani erano interessati solo al brand e gli offrivano addirittura oltre 1 milione di dollari non gli è sembrato vero. La transazione è andata a buon fine e se i cinesi erano felicissimi della plusvalenza di oltre 1 milione di dollari, anche gli americani lo erano perché avevano acquisito un brand percepito di valore con un mercato che ne valeva almeno 5 all’anno.

Questo è possibile se si riesce a costruire un brand che occupi uno spazio nel mondo e abbia la capacità di attrarre le persone.